AMERICANI, MA NON TROPPO

AMERICANI, MA NON TROPPO

Su Repubblica del 23.3.03 sono stati riportati stralci di un dibattito sull’aumento delle tasse universitarie.

De Maio (ex-rettore del Politecnico di Milano, neo-rettore della LUISS, presidente della Commissione ministeriale sullo stato giuridico dei docenti, tentato commissario governativo del CNR) sostiene: “Noi non possiamo permetterci più di un numero molto limitato di università in cui il livello di ricerca è effettivamente adeguato. Allora noi non abbiamo probabilmente una definizione per legge di ‘teaching’ e ‘research university’ ma di fatto già è così, solo che si fa finta che non sia vero e si penalizzano tutti. (…) Se noi andiamo ora a valutare le “classiche” università statunitensi, ce ne sono trenta o cinquanta di eccellenza, ma nel sistema universitario sono oltre tremila, e questa è la situazione in tutto il mondo.”

Martinotti (presidente della Commissione ministeriale che ha portato al “3 + 2”) sostiene: “Nel sistema di istruzione superiore della California, che io ritengo rimanga ancora un modello da seguire se non da applicare, ci sono tre livelli: le ‘research universities’, dove va il 12,5 per cento di quelli che hanno il diploma di high school; c’è il successivo livello, quello delle ‘state universities’, dove va il successivo 27; e poi ci sono i ‘community colleges’, che però hanno un buon livello.”

Al dibattito ha partecipato anche Tosi (presidente della CRUI) che ha sostenuto di non essere “d’accordo con chi vuole fare le ‘teaching universities’ e le ‘research universities’.”

Il coordinatore del dibattito conclude: “Sembra dunque che questo venti per cento sul totale dei fondi pubblici, attuale tetto delle tasse studentesche, ndr venga visto da tutti come uno sbarramento da togliere, in quanto provoca effetti contrari. Perché, allora, voi tre, che siete persone influenti in questo ambito, non riuscite a farlo togliere?”

Non poche delle “persone influenti” dell’accademica italiana hanno come modello universitario di riferimento quello americano.

Contro questa forma di esterofilia, spesso di comodo, ribadiamo quanto affermato da quasi tutte le Organizzazioni della docenza che “si oppongono all’idea che si possa sostituire lo storico sistema consolidato da secoli di tradizione con qualche improvvisata struttura di tipo aziendalistico o con recepimento poco accorto di modelli stranieri maturati in contesti storici, culturali ed economici diversi da quello italiano”.

In ogni caso, il riferimento documentato e non per luoghi comuni alla realtà americana forse non sempre conforterebbe la parte ‘filoamericana’dell’accademia italiana.

Per esempio, proprio per la questione del finanziamento, le tasse studentesche in America costituiscono solo il 19 per cento delle fonti di finanziamento delle Università pubbliche, mentre i contributi privati sono appena il 5 per cento (per un approfondimento di questa questione v. “L’Università negli Stati Uniti d’America” di Lorenzo Marrucci, pp. 32-36.

C’è da aggiungere che il recepimento del modello americano da parte dell’accademia che conta non comprende due punti centrali del modello stesso: il reclutamento e i rapporti tra le fasce della docenza. Su queste due questioni la lobby accademica è radicalmente italiana.

Infatti negli USA il reclutamento effettivo alla docenza avviene di norma nella terza fascia (assistant professor) che “non è un ‘assistente’, ma un professore universitario a tutti gli effetti, che ha cioè la ‘titolarità’ di corsi (e non fa invece assistenza didattica, che è affidata di norma a personale a contratto o a studenti di Ph.D.), conduce la sua ricerca in modo autonomo (…) si trova ad avere così tutte le risorse e l’autonomia necessarie per sviluppare adeguatamente le proprie idee (…)”. “È abbastanza raro per un neo-docente essere assunti presso la stessa università dove si è conseguito il Ph.D. o dove si è fatto l’ultimo periodo di post-doc.” (da p. 43 del citato lavoro di Marrucci).

Ed è questa l’’America’ indigesta alla lobby accademica italiana. Infatti, “i vincitori dei concorsi italiani sono quasi sempre provenienti (come formazione o periodo post-dottorale) dalla stessa sede presso cui il concorso è bandito. In molti casi, in commissione c’è un docente con il quale il vincitore ha avuto rapporti di collaborazione scientifica” e “il reclutamento di un ricercatore” “è visto come l’allargamento di un gruppo di ricerca già esistente, diretto da un professore ‘anziano’” che decide “di fatto chi reclutare”. “Anche la ricerca e la carriera successiva del giovane docente in genere dipenderà dal ‘patrocinio’ di un professore più anziano, in genere ordinario, sia attraverso l’allocazione delle risorse quali fondi di ricerca, spazi, borse di studio, ecc., sia attraverso la ‘gestione’ dei concorsi per passare ai ruoli di professore associato e professore ordinario.” ”Alla fine, non è inconsueto che un docente arrivi ad acquisire una totale indipendenza scientifica (…) solo ad una età di oltre 50 anni, quando la sua capacità innovativa e il suo entusiasmo potrebbero essere esauriti. Questo va confrontato con l’età tipica di 30-35 anni alla quale il professore statunitense è al primo stadio della sua carriera, che già implica completa indipendenza.” A differenza che negli USA, in Italia “gli studenti si laureano, fanno il dottorato e alcuni anni di post-doc sempre nello stesso posto (e magari con lo stesso docente con cui si sono laureati” (dalle pp. 47-48 del citato lavoro di Marrucci).

Su queste stesse questioni l’ANDU ha anche recentemente denunziato che in Italia “non a tutti i docenti è garantita la libertà di ricerca e di insegnamento proprio perché vi è un pesantissimo rapporto gerarchico che ‘costringe’ alla dipendenza anche ‘umana’ chi sa che la sua carriera dipende dalla volontà di chi è in grado di ‘operare’ a livello locale per il bando del posto e di ‘organizzare’ a livello nazionale la commissione del finto concorso. Ed è proprio la ‘baracca dei concorsi’ a costituire il cancro dell’Università italiana; cancro che molti di coloro che la gestiscono non vogliono estirpare”. E per quanto riguarda i concorsi a ricercatore, l’ANDU ha ripetuto che in Italia il reclutamento alla docenza è “appannaggio esclusivo del singolo professore e basato sulla conoscenza e formazione ‘personalizzata’ del nuovo docente, che deve essere ‘umanamente’ compatibile con chi lo sceglie. Dopo questa iniziale cooptazione personale, il controllo della carriera avviene attraverso successivi meccanismi concorsuali, facendo finta che un ricercatore che diventa associato o ordinario e che un associato che diventa ordinario non continuino il lavoro che stavano svolgendo prima della promozione.”.

Il rimedio a tutto questo sarebbe tanto semplice quanto molto doloroso per coloro che al bene dell’Università e del Paese antepongono la gestione delle carriere: il reclutamento alla docenza (cioè nella terza fascia della docenza) dovrebbe avvenire con concorsi gestiti da alla gestione delle carriere commissioni nazionali composte esclusivamente da ordinari tutti sorteggiati. Il passaggio nelle fasce di associato e di ordinario dovrebbe avvenire per valutazione non comparativa dell’attività di ricerca, didattica e organizzativa; il giudizio di idoneità a numero aperto dovrebbe essere dato da commissioni nazionali composte esclusivamente da ordinari tutti sorteggiati. Ad un giudizio di idoneità positivo dovrebbe corrispondere, automaticamente e immediatamente, il riconoscimento del passaggio. Le mansioni e i poteri dovrebbero essere uguali per gli appartenenti alle tre fasce.

Questo sarebbe l’unico modo per non fare restare l’Università italiana prevalentemente un insieme di botteghe a gestione familiare.

E non rimane molto tempo per impedire che le “persone influenti”, dentro e fuori il Parlamento, assestino un ulteriore e pesante colpo all’Università italiana, imponendo definitivamente il modello di una massa di Università-liceo e di un numero ristretto di Università di eccellenza, pubbliche o private. A proposito, per le università private americane i contributi dello Stato sono il 2 per cento e quelli delle agenzie federali il 14 per cento delle fonti di finanziamento. A quanto ammonta il contributo pubblico per le università private italiane?

Il tempo è poco: i contenuti del progetto De Maio-Moratti, senza alcuna ulteriore specificazione, hanno ora assunto la forma della legge delega.

7 aprile 2003

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *