LAUREE PER CONFINDUSTRIA – ”SFIGATI” – PRIN – CONCORSI

= 25 gennaio 2012

1. LAUREE per Confindustria. Una lunga storia

2. “SFIGATI”

3. PRIN: poteri impropri agli Atenei

4. CONCORSI ad associato

1. LAUREE per Confindustria

    • “In Confindustria si fa sapere che ‘non si può non essere d’accordo’ con una norma che ‘va sicuramente nella direzione di una vera liberalizzazione’” La norma è quella che riguarda il valore legale dei titoli di studio e che venerdì prossimo il Governo dovrebbe approvare con un decreto legge. Tutto ciò si è letto sul Corriere della Sera del 22.1.2011, che ampiamente riporta le favorevoli opinioni del Direttore della Fondazione Agnelli e del Presidente di TreeLLLe, la “lobby trasparente” confindustriale che ha ‘dettato’ le leggi sull’ANVUR e sulla organizzazione degli Atenei già nel 2003 e la cui governance è di per sé un ‘progetto’.

    • La verità è che “l’abolizione del valore legale dei titoli ‘comprende’ anche l’abolizione dello stato giuridico nazionale dei docenti, la ‘liberalizzazione’ delle tasse e la differenziazione degli Atenei.” “Come la ‘nuova’ governance degli Atenei, imposta dalla legge 240/10, anche queste ‘riforme’ vengono da lontano e sono volute dalla Confindustria e condivise da tutti i partiti e dall’accademia che conta, con in testa i ‘soliti’ economisti.” Questo è stato denunciato già nel giugno scorso dall’ANDU in un articolato documento dal titolo “Abolire il valore dei titoli per abolire tutto”.

      E che l’abolizione del valore legale dei titoli di studio abbia come reale obiettivo il completamento dell’abolizione dell’Università statale di qualità e aperta a tutti, lo conferma indirettamente l’analisi di Giliberto Capano, su Europa del 23.1.12, che invita il Governo a non “farsi tirare dalla giacchetta dai troppi Soloni (ahimè, provenienti proprio dal mondo accademico) che propongono soluzioni semplicistiche basate, appunto, su furori ideologici o su modelli ideali che non esistono in nessuna parte del mondo.”

Una lunga storia:

  • Nel dicembre 2005 i DS avevano proposto:di “affievolire il valore legale dei titoli”.

  • Nel marzo 2006 la Confindustria, assieme ad altre 17 sigle ‘imprenditoriali’ (dall’ABI alla Legacoop), aveva posto “il tema del superamento del valore legale del titolo di studio” che “si configura come un ostacolo alla concorrenza” e aveva proposto “in prospettiva la sua sostituzione con un sistema di accreditamento (considerato) un elemento necessario per un rilancio di una formazione di qualità fondata sulla effettiva creazione di competenze scientifiche e professionali.”

  • Nel marzo 2008 al punto 7 del Programma del PD si leggeva: “Ciascun ateneo deve essere libero di assumere personale docente italiano e straniero, di darsi il sistema di governo che ritiene più adeguato, di stabilire le norme per l’ammissione degli studenti, di fissare liberamente le rette.”

  • Nel luglio 2010 il PDL ha presentato “una proposta di legge” per “abolire il valore legale del titolo di studio”.

  • Nel maggio 2011 il Presidente della CRUI aveva parlato di “transizione morbida verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio”.

  • Nel giugno 2011, invece, le Organizzazioni universitarie, in un documento illustrato al Senato, scrivevano, tra l’altro: “Consideriamo il mantenimento del valore legale del titolo di studio un dato centrale del sistema universitario italiano e paventiamo che la sua abolizione possa incrementare le diseguaglianze sociali ed economiche.”

= Martedì 31 gennaio p.v. si riuniranno le Organizzazioni universitarie per valutare le scelte del Governo e per esaminare l’operato del Ministro (PRIN, concorsi ad associato, dottorato).

2. “SFIGATI”

       “Se non sei laureato a 28 anni sei uno sfigato”. Per questa affermazione Michel Martone, viceministro al lavoro, ha sollevato un mare di critiche. Qui si vuole invece valorizzare gli aspetti della vicenda che possono diventare positivi per l’Università. Martone si è laureato a 23 anni e a 27 anni è diventato ricercatore di ruolo. Questo dimostra che è possibile entrare nel ruolo della docenza prima dei 40 anni (la media attuale) e certamente il ministro Profumo provvederà a riscrivere la legge 240/10 – di cui, secondo l’on. Valentina Aprea, sarebbe stato uno dei principali artefici – che invece ‘programmaticamente’ prevede un ingresso in ruolo non prima di 40-45 anni.

      Inoltre l’eccellente e difficilmente imitabile carriera accademica del viceministro (dopo un anno è diventato associato e dopo altri due ordinario) può portare un contributo all’individuazione di giusti criteri per valutare il merito. Infatti nella “Relazione finale della commissione giudicatrice della procedura di valutazione comparativa per il reclutamento di un Professore Ordinario”, si leggono giudizi sul candidato Martone (“due monografie, una delle quali in edizione provvisoria”) che sembrano dimostrare che si possa diventare ordinari per meriti futuri.

       Per diventare viceministri, invece, non è prevista, giustamente, una commissione e quindi non è disponibile una relativa relazione. Ma certamente ci saranno stati degli ottimi motivi che hanno portato alla nomina di Michel Martone a viceministro al lavoro, un incarico che gli consente di intervenire sulle condizioni di milioni di “sfigati”, laureati e non laureati, sempre più in difficoltà (precari, licenziati, disoccupati); persone certamente molto meno capaci di Martone, ma che non per questo debbono subire le insopportabili conseguenze di una crisi che non hanno prodotto.

 3. PRIN: poteri impropri agli Atenei

Come è noto il primo bando PRIN è stato sostituito dal “Nuovo bando PRIN” che contiene alcune novità. Le poche modifiche sono apportate in seguito alle pesanti e diffuse critiche alle scelte del Ministro. La critica forse più importate era stata quella riguardante la preselezione ‘contingentata’ di ateneo dei progetti che limita la libertà di partecipazione e consegna nelle mani dei ‘vertici’ degli Atenei un potere enorme e improprio. Una analoga critica era stata espressa dai Direttori della Normale e del Sant’Anna: “Sorprendentemente, e per la prima volta, la procedura di selezione non è più basata esclusivamente sulla validità dei progetti, ma sono introdotti dei limiti numerici sia a quante idee progettuali possono essere proposte da un Ateneo sia, simmetricamente, a quanti giovani possono proporre di svolgere la loro ricerca in una specifica Università” “Tutto è parametrato su una frazione della quantità di personale in ruolo nell’Ateneo.” Ed ancora: “Questo approccio “quantitativo” porterà inevitabilmente alla formazione di ‘cordate’ e di turnazioni nell’assegnazione dei fondi di ricerca poco o per nulla dipendenti dal merito.” Nel nuovo bando è ancora previsto che “ciascuna università può preselezionare, a livello di Coordinatore scientifico, un numero di progetti: a) non superiore allo 0,75% del numero di docenti e ricercatori presenti nei propri ruoli al momento della scadenza del bando, con arrotondamento all’intero superiore”, ma è stato aggiunto: “b) ovvero, se maggiore, un numero non superiore alla media (moltiplicata per 0,75, con arrotondamento all’intero superiore) dei progetti finanziati, a livello di coordinatore scientifico, negli ultimi tre bandi PRIN.” Insomma rimane l’”approccio” quantitativo ma con l’aggiunta del punto b) si alzano le quantità per gli Atenei che nel passato hanno avuto un alto (rispetto al numero dei docenti) numero di “progetti finanziati”.

4. CONCORSI ad associato

       Nonostante le richieste provenienti da più parti (compresi il Parlamento e le Organizzazioni universitarie) il ministro Profumo si ostina a voler privare gli Atenei ‘non virtuosi’ dei posti straordinari ad Associato.

       Il 18 gennaio scorso, in occasione della discussione sul Decreto Milleproroghe, la Commissione Cultura della Camera ha approvato un parere che riguarda anche questa questione:

“Con riferimento al piano straordinario di assunzioni di professori universitari di seconda fascia di cui all’articolo 29, comma 9, della legge n. 240 del 2010, si ritiene necessario che detto piano non sia sottoposto al regime previsto dall’articolo 1, comma 1, del decreto-legge n. 180 del 2008;”

       Le motivazioni a favore della non penalizzazione degli Atenei ‘non virtuosi’ sono state esposte dalla Relatrice Manuela Ghizzoni del PD.

7 comments for “LAUREE PER CONFINDUSTRIA – ”SFIGATI” – PRIN – CONCORSI

  1. Giovanni Federico
    25 gennaio 2012 at 19:22

    E che l’abolizione del valore legale dei titoli di studio abbia come reale obiettivo il completamento dell’abolizione dell’Università statale di qualità e aperta a tutti

    Mi devo essere perso qualcosa: l’università italiana è sicuramente aperta a tutti, ma dov’è la qualità?

  2. 25 gennaio 2012 at 20:30

    I temi sul tappeto sono numerosi e complessi. Ma l’attuale ministro è una persona che li conosce tutti e molto bene. Io credo che oggi il problema più importante sia lo sblocco dei concorsi e quindi l’avvio immediato delle procedure dell’abilitazione nazionale. Che cosa aspetta il ministro? Non capisce che nel trascorrere del tempo si esaurisce la vitalità scientifica dei ricercatori che pure si sono sacrificati per le strutture di appartenenza? Nessuno vuole ope legis, ma il diritto a farsi valutare è sacrosanto.

  3. Guglielmo Rubinacci
    25 gennaio 2012 at 22:09

    Gli sfigati siamo noi che sosteniamo con le nostre tasse questo sistema …
    Nella valutazione degli Atenei, ai fini del loro finanziamento, ha un peso il numero degli studenti attivi. Uno studente attivo è uno studente che abbia ottenuto almeno 5 crediti su 60 in un anno.

    Si sostiene così, in massima parte con la fiscalità generale, un sistema d’istruzione superiore che reputa attivo uno studente che sia in grado di superare in un anno meno di un decimo delle prove previste. In quale altro paese i giovani sono così deresponsabilizzati?

    La cosa più imbarazzante è però che, pur considerando un parametro così prossimo allo zero (o forse proprio per questo), una grande quantità di iscritti (il 30%?) non possano essere definiti studenti attivi. Paradossalmente, anche tale parametro rischia di essere significativo nel distinguere lo zero dal nulla.

    Il problema è delicato, perchè aumentare questo numero potrebbe indurre gli Atenei ad abbassare ulteriormente la soglia. Non è questa la sede per tentare di proporre soluzioni. Sicuramente un primo passo di chiarezza si otterrebbe eliminando il valore legale del titolo di studi e lasciando agli studenti stessi la possibilità di valutare implicitamente, con le proprie scelte, le prestazioni degli Atenei.

    Siamo sicuri che uno Stato moderno che dia spazio al merito possa permettersi il lusso di tenere in parcheggio a spese della collettività tanti “studenti”?

    Le responsabilità dell’Accademia sono sicuramente tante, ma altrettanto sicuramente è la classe politica che ha mancato clamorosamente nel definire con rigore le modalità per il finanziamento della didattica e della ricerca, per la gestione dell’autonomia delle Università e per la valutazione dei loro risultati. Non si può parlare del merito e poi ritenere che non vi debba essere differenziazione degli studenti. Le Università che hanno studenti poco meritevoli sono quelle più prone ad accettare docenti poco impegnati. Il discorso è complesso e parte dalla reale attuazione di un serio diritto allo studio, che diventa per un’università pubblica il primo nodo da sciogliere.

  4. Gianfranco Denti
    26 gennaio 2012 at 09:53

    Ci risiamo col matra del valore legale… Ci tirano per i capelli a dover ridire cose già dette mille volte. Ma tant’è.

    In primis dobbiamo ricordare che non c’è un articolo di legge che definisca tout-court il valore legale di un titolo di studio. (Per assurdo il valore legale di un titolo si potrebbe tautologicamente definire così: “Un titolo accademico ha valore legale se è rilasciato da un’istituzione abilitata a rilasciare titoli accademici aventi valore legale”.) Invece sono molte le leggi universitarie che vi si riferiscono, a cominciare dall’art. 170 del T.U. approvato con R.D. 31 agosto 1933, n. 1592 (“ I titoli accademici conseguiti all’estero non hanno valore legale …”) e tutte le convenzioni e gli accordi sul reciproco riconoscimento dei diplomi e dei titoli accademici che a quell’articolo si richiamano. Importanti sono poi l’art. 10, 1° comma, del D.L. 1° ottobre 1973, n. 580, convertito con modificazioni nella legge 30 novembre 1973, n. 766 (“Le denominazioni di università, ateneo, politecnico, istituto di istruzione universitaria, possono essere usate soltanto dalle università statali e da quelle non statali riconosciute per rilasciare titoli aventi valore legale a norma delle disposizioni di legge.”) e l’art. 6, 1° e 2° comma, della legge 7 agosto 1990, n. 245, che detta norme in materia di autorizzazione a “istituzioni promosse o gestite da enti e privati” “a rilasciare titoli di studio universitari aventi valore legale”. Vi sono diverse altre norme, nelle leggi universitarie, che citano il valore legale, così come ve ne sono certamente tantissime, non propriamente universitarie, che sostanziano il valore legale dei titoli, p. es. prevedendo che soltanto i possessori di specifici titoli rilasciati da università ecc., statali o non statali riconosciute, possano avere accesso a esami di abilitazione all’esercizio di specifiche professioni (per l’iscrizione ai relativi ordini ed albi professionali), a concorsi a specifici impieghi nella pubblica amministrazione (vedi Cost., art. 97, 3° comma), ecc. Da questo punto di vista il valore legale potrebbe definirsi come l’insieme delle possibilità previste dalle leggi per l’utilizzo del titolo accademico a fini professionali e lavorativi. Perché abolirlo?

    L’osservazione che spesso viene fatta è che attribuire lo stesso valore a lauree rilasciate da istituzioni differenti penalizza le migliori e piu serie fra queste. Questo è vero solo nel caso di concorsi pubblici o graduatorie per impieghi pubblici in cui venga attribuito un punteggio al voto di laurea, alla media dei voti negli esami o ai voti in particolari esami. Ma questo, quando avviene, non è dovuto al valore legale, bensì alle norme previste nei bandi di concorso o nei decreti ministeriali. Basterebbe non prevedere più attribuzioni automatiche di punteggi che incidono sulla graduatoria del concorso, e chiedere il possesso del titolo di studio quale mero requisito di accesso, come peraltro si fa nella stragrande maggioranza dei casi. E fare concorsi seri.

    Quanto all’osservazione incidentale di Guglielmo Rubinacci (col quale concordo per altri aspetti del suo intervento): che cosa c’entra il valore legale con la scarsa o nulla attività di molti studenti?

    Penso che chi sostiene la cosiddetta abolizione appartenga ad una della seguenti categorie: i disinformati/irriflessivi, che sono i più; i furbetti, che sono molto meno numerosi, ma pericolosissimi. A questi ultimi stanno a cuore principalmente due obiettivi. Il primo è la definitiva mercificazione dell’istruzione e la conseguente privatizzazione dell’università: il rilascio e l’uso dei titoli accademici non più regolati da leggi fa sì che chiunque, magari “accreditato” – ma da chi? da qualche agenzia di rating? – li possa, opportunamente pagato, rilasciare. Il secondo obiettivo, non meno dirompente, è l’abolizione dei concorsi pubblici, che il venir meno del filtro sui titoli di accesso renderebbe indispensabile, con grande soddisfazione dei fautori delle “chiamate dirette”, magari di “bravi” amici, “bravissimi” parenti, o dei vari Trota, che di titoli di studio scarseggiano alquanto, ma anche dei bocconiani, che il titolo ce l’hanno, non necessariamente grosso, ma sicuramente costoso.

  5. Guglielmo Rubinacci
    26 gennaio 2012 at 16:44

    Ringrazio Gianfranco Denti per i suoi stimolanti commenti. Il discorso è notevolmente complesso e le osservazioni di Denti sono largamente condivisibili. Nessuna privatizzazione nè proliferazione di sedicenti Università (telematiche?) per titoli a pagamento. La mia era in parte una provocazione, per spostare il baricentro sul reale interesse degli studenti. In Francia non tutte le Università sono uguali. E’ garantito però l’accesso di tutti ad una Università.

    Certamente gli slogans non aiutano, ma questo è purtroppo il modo in cui siamo obbligati a confrontarci in un Paese che ormai non è più un bell’esempio di qualità.

    Sgombriamo innanzitutto il campo dalle ideologie e cerchiamo di entrare nel merito

    Credo che ci sia molta confusione sul significato del termine “valore legale del titolo di studio”. Vale quanto detto da Denti.

    E’ sicuramente poco incoraggiante osservare che lo Stato:

    – fornisce ai propri cittadini un “servizio”, di cui garantisce la qualità a priori, ingenerando negli studenti la sensazione che sia importante acquisire “il pezzo di carta”, prescindendo dalle competenze realmente acquisite;

    – obbliga tutte le università a seguire uno schema abbastanza involuto di regolamenti, come quello attualmente in vigore del 3+2, il cui rispetto formale, da solo garantisce la “qualità” del titolo;

    – ha male interpretato finora l’autonomia delle università, pagando a piè di lista, senza controllare in alcun modo la qualità dei propri investimenti.

    Cosa accade già nella società reale, quella affrancata dai concorsi pubblici? Chi è laureato in una “buona” università viene assunto più rapidamente e con responsabilità (e salari) iniziali maggiori. Chi si laurea tardi e male stenta ad orientarsi nel mondo del lavoro e spesso scopre tardi di aver fatto errori di valutazione o paga per gli errori di chi lo ha illuso.

    Questa informazione però non è codificata correttamente. Siamo tutti responsabili nel non volerci accorgere che la mobilità sociale passa attraverso il filtro delle buone università e non delle raccomandazioni. Persona che conosco, figlio di operai, si è laureato in Bocconi a zero lire, grazie a borse di studio Bocconi. Oggi è sicuramente nella fascia alta dei professionisti. In genere però solo i figli di chi ha maggiore sensibilità, istruzione (e denaro) hanno la possibilità di accedervi. La massa viene illusa che con il pezzo di carta la strada è in discesa.

    Nella realtà del pubblico impiego, il discorso non è quello della chiamata diretta che amplificherebbe il malaffare vigente. Ma neppure quello del pezzo di carta uguale per tutti, che azzera le differenze. Queste ifferenze possono essere messe facilmente più in evidenza solo attraverso un buon processo formativo e non attraverso una prova di mezza giornata. Mi fermo qui. Discorso troppo lungo per questa sede.

    Bisognerebbe partire da queste premesse, credo, per costruire un nuovo ordinamento degli studi realmente rispondente alle attese del Paese.

    Altrimenti si favoriscono le solite combricole, con l’assenso di qualche soddisfatto idealista … di “sinistra”.

  6. mgmeriggi
    16 settembre 2015 at 08:08

    ai tempi di Ruberti giovane ricercatrice ero più o meno sulle posizioni della Pantera
    ancor oggi colleghi di allora rilevano che ero stata profetica ma non ci voleva molto bastava applicare all’università la critica che la sinistra ha sempre rivolto alle privatizzazioni

  7. gianni
    16 settembre 2015 at 09:57

    I motivi alla base della carriera lampo del prof. Martone e della sua nomina a viceministro sono facilmente individuabili se ci si documenta chi è il padre (Avvocato Generale della Cassazione, Presidente della Commissione per la trasparenza nella P.A.). Si dà il caso che i docenti universitari andati in cattedra prima dei 40 anni sono meno del 2%.

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