Università italiana: non è la peggiore, anzi …

Il processo di demolizione del sistema universitario italiano già avviato dai precedenti governi sta per essere portato a termine dal duo Tremonti-Gelmini.

I tagli al Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO) che gli apparati di governo degli atenei stanno subendo senza reagire, anzi aderendo supinamente e senza alcuno scatto di orgoglio alle indicazioni ministeriali, contrarrà ancora di più l’entità delle risorse che le sedi universitarie potranno destinare a ricerca e didattica. Prendendo le mosse dai troppo ricorrenti episodi di malcostume nel reclutamento che hanno portato l’università all’attenzione dei media, episodi ripugnanti che è giusto che siano stati denunciati e condannati senza riserve, si è estrapolato fino a teorizzare che l’intero sistema sia una totale fogna e che quindi vada colpito con esemplare fermezza, abbattendo la scure in particolare sugli atenei del Sud per definizione marginali e inefficienti.

Il tutto con il consenso esplicito della ‘grande’ stampa nazionale e della stessa opposizione parlamentare che si attribuisce esplicitamente la paternità di questi provvedimenti con le dichiarazioni di Luigi Berlinguer al Corriere della sera.

Il collega Franco Di Quarto, che è già intervenuto sulla valutazione degli atenei italiani operata dal Ministero, argomenta, al contrario, che l’Università italiana, nonostante la assoluta modestia delle risorse che le sono destinate, produce in molti settori ricerca e didattica di livello pari se non addirittura superiore a quello dei maggiori competitori europei che possono disporre di finanziamenti ben più consistenti e che, anche l’assunto del divario Nord Sud traballa alla luce dei dati reali.

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Francesco Di Quarto, ordinario di Elettrochimica presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Palermo

“E’ peggio di un crimine, è un errore” credo che, parafrasando Talleyrand (o Fouche’, ci correggano gli storici!), si possa dire a proposito dei tagli al FFO  delle Università italiane operati dai Ministri Gelmini e Tremonti.

In un precedente intervento avevo messo in evidenza, non smentito fino ad oggi, quali errori (voluti?) si nascondessero dietro i criteri ministeriali di premialità alla ricerca delle varie sedi universitarie. Questa premessa è necessaria perché, come vedremo, la ricerca italiana, malgrado il sottofinanziamento, non sfigura affatto rispetto a quella prodotta nei più avanzati paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna) e, in ambito nazionale presenta certamente in diversi casi, livelli di qualità comparabile anche tra Nord, Centro e Sud.

In questo intervento vorrei argomentare perché le scelte ministeriali dei tagli alla ricerca universitaria (nei fatti in questo si tramuteranno i tagli al FFO operati dalle finanziarie tremontiane e dai provvedimenti gelminiani ivi incluso il ddl esitato questa settimana al Senato) si configurino come un crimine a cui la grande stampa e molti “opinionion makers”, poco esperti di università o ideologicamente abbacinati dal mito americano, hanno finito col fornire comodi alibi. Tutto ciò, anche, grazie all’irresponsabile condotta di miopi accademici (leggasi: nepotismo, invenzione di minidiscipline accademiche con mini-CFU e conseguente spropositato incremento del numero di esami per il conseguimento di lauree brevi e specialistiche) e/o Rettori succubi/complici di mediocri politici locali/nazionali (vedi insensata proliferazione di sedi e corsi di laurea decentrati e no).
Tutto cio’ premesso, in quale altra nazione europea o paese del G8 i responsabili delle Commissioni Ricerca e Formazione delle Organizzazioni degli Industriali salgono in cattedra per lamentarsi della scarsa qualita’ della ricerca prodotta dall’Universita’ quando e’ noto all’universo mondo che la industria italiana destina a questa lo 0,53% del PILa fronte di un dato medio EU pari a 1,19%, con Giappone a quota 2,12%,  Stati Uniti a 1,96% Germania a 1,66% Francia a 1,38% e Russia (udite udite!) a 0,72%? (vedi Nature, vol. 430, 15 Luglio 2004).

La “patria del piccolo e’ bello” di “deritiana” memoria e i vertici confindustriali  erano a conoscenza che il numero di ricercatori a tempo pieno presenti nella industria italiana ammontava, nel 2004, ad appena 3,09 unita’ per ogni mille dipendenti (a fronte di un dato di 9,6/1000 nel caso del Giappone e di 5,6/1000 per la UE)?  Perché scandalizzarsi sul consiglio ad andare via che un padre, a conoscenza di queste ed altre statistiche, da’ al proprio figlio ingegnere (bravo e preparato) il quale probabilmente, se vuole fare ricerca scientifica, non troverà posto nelle università italiane vista l’immancabile penuria di posti di ricercatore (e/o professore) che si avra’ nei prossimi anni (per non parlare dell’industria!) proprio grazie ai provvedimenti Tremonti-Gelmini?

Per completezza di informazione sono andato a riguardare le statistiche sui finanziamenti pubblici (in % sul prodotto interno lordo) alla Ricerca e Sviluppo dei diversi paesi del G7 (senza la Russia) da cui si vede che nel 2004 (ancora prima dei tagli Tremonti-Gelmini) l’Italia figura buon ultima dietro la Francia e gli altri paesi G7 e in analoga posizione ma con un distacco ancora maggiore nei finanziamenti totali (pubblico-privati) alla formazione universitaria e alla ricerca e sviluppo. Questo dato potrebbe spiegare perché le università degli altri paesi G7 hanno una dotazione infrastrutturale per la ricerca mediamente migliore di quella media italiana ed un numero di ricercatori largamente superiore a quello dell’Italia.

Da questi dati i soliti “opinion maker” hanno dedotto senza altri approfondimenti, che le Università italiane producono poco e male sia come qualità di ricerca che come qualità di laureati e che quindi non si produrrebbe alcun danno “affamando” l’Università (il duo Gelmini-Tremonti docet), visto che nella stragrande maggioranza le Università italiane sono degli enti inutili o quasi (salvo ovviamente quelle da 110 e lode). Questi luoghi comuni naturalmente coesistono, anche presso l’accademia che conta, in stridente contraddizione con il dato da tutti sbandierato che molti nostri giovani, spesso formati nelle università di cui sopra, vincono facilmente posti di dottorato e di docenza nelle migliori Università europee ed americane e che la causa principale del loro non ritorno dipende dalla mancanza di posti di ricercatore e/o di professore decentemente remunerati e/o dall’assenza di finanziamenti adeguati per intraprendere e continuare i programmi di ricerca su cui lavorano o potrebbero lavorare una volta tornati in Italia.

Delle due l’una o le Università italiane producono buoni laureati sulla base di una buona (non da premio nobel per carità!) ricerca o il luogo comune sulla scarsa qualità delle Università italiane è una mezza verità (ossia una mezza bugia!).

Immaginando lo sdegno e il furore del trio Gelmini-Tremonti-Brunetta sui fannulloni accademici italiani (escludendo da questo insieme ovviamente i due ministri, accademici pure loro!) e al fine di sfatare il luogo comune e placare lo sdegno  dei nostri Ministri invito a leggere l’articolo di D. A. King (The scientific impact of nations) su Nature 2004  relativo al periodo 1993-2002 da dove si evince che il numero di citazioni per articolo (normalizzato) dei ricercatori italiani delle scienze “dure” e’ il 12% piu’ alto rispetto alla media mondiale ed a pari livello con i colleghi francesi i quali godono di finanziamenti alla ricerca sicuramente più alti dei nostri. Se poi si volesse procedere a una analisi comparata per aree di ricerca omogenee e per un periodo piu’ recente comprendente gli anni fino al 2007 i dati “Scimago” ricavati dal database SCOPUS mostrano che sull’insieme delle 27 macroaree, comprendenti le scienze “dure” e “molli” presenti nel data base, il numero di citazioni per articolo dei ricercatori italiani non e’ inferiore a quello degli altri paesi europei (Francia, Germania e Regno Unito) e nettamente piu’ alto rispetto alla Spagna. Limitando il confronto con i tre paesi europei piu’ grandi e’ possibile vedere che i ricercatori italiani “sovra-performano” (numero di citazioni per articolo superiore ad almeno due dei paesi confrontati) in 9 macroaree, “performano” (numero di citazioni superiore ad almeno uno dei paesi confrontati)  in 10 e “sotto-performano” (numero di citazioni per articolo inferiore rispetto a tutti i paesi confrontati) nelle restanti 8 macroaree.

Per i più curiosi può essere interessante sapere che le macro-aree in cui l’Italia sovraperforma (eccelle?) includono: ingegneria, energia, medicina generale e scienze stomatologiche, psicologia, scienze sociali, professioni sanitarie, veterinaria. Infine va detto che, anche nelle macroaree delle scienze “dure” in cui l’Italia regge il confronto (performa), esistono molti settori di vera eccellenza dei ricercatori italiani spesso e volentieri mai citati negli articoli giornalistici perché poco si prestano allo scoop giornalistico.

Se questi sono i dati reali (1993-2007) come mai, solo in Italia, si assiste allo sconcio di una stampa che si presta a campagne di pubblica opinione contro i “fannulloni accademici” i quali, pur finanziati in maniera insufficiente, riescono a mantenere in vita settori di ricerca in cui l’Italia eccelle? Come mai gli organi di informazione, invece di avviare una campagna di stampa contro la miopia confindustriale e ministeriale sui tagli generalizzati alle Università e sulla premialità autoreferenziale  (e in qualche caso clientelare), si prestano spesso e volentieri alla denigrazione sistematica e generalizzata di una istituzione che pur con tutti i suoi difetti, sopra richiamati, non e’ certo la responsabile primaria del degrado civile ed economico del paese?

Infine vorrei sottoporre all’attenzione un dato che, per quanto parziale dimostra che almeno in alcuni settori dove la ricerca italiana sovraperforma (eccelle?) non esistono un Nord ed un Sud d’Italia. Il riferimento è fatto al mio settore di appartenenza, l’elettrochimica, perché è l’unico sul quale possiedo dati sufficienti per elaborare un confronto. Ebbene, il confronto tra le citazioni per articolo dei ricercatori (H index) che lavorano nelle diverse sedi universitarie presenta caratteri di uniformità territoriale tale da inficiare i tagli di risorse previsti nelle graduatorie ministeriali per le università centro-meridionali, e sono certo che così sarà anche per molti altri settori. Con il taglio di risorse l’effetto più probabile sarà la scomparsa, in un breve giro di anni, di gruppi di ricerca che faticosamente sono riusciti ad emergere anche là dove il ministro Gelmini e i distratti opinion maker forse non se lo sarebbero mai aspettato.

Come mai inoltre il ministro Gelmini invece di chiedersi perché, in alcune sedi universitarie, gli studenti dei primi anni hanno difficoltà di inserimento in un corso di studi universitari ritiene meglio punire le stesse sedi perché sanzionano le carenze delle scuole medie di provenienza, piuttosto che proporre interventi atti a colmare tali carenze?

Se il ministro Gelmini e il ministro Tremonti si degnassero di spiegarci come pensano di riuscire a risolvere questi problemi di didattica tagliando i fondi alle Università o, peggio, distribuendo i pochi fondi ministeriali alle Università che insistono su territori meno deprivati culturalmente e più ricche di risorse locali noi saremo ben lieti di ascoltare le loro ragioni e modificare, eventualmente, i nostri giudizi.

Spero, infine, che queste mie riflessioni inneschino un dibattito, non solo interno all’accademia, che serva ad avviare un’operazione di demistificazione sulla campagna in atto di smantellamento della Università pubblica italiana da parte di questo come di quasi tutti i precedenti governi e con la “disattenzione” (interessata?) di associazioni tipo AQUIS e opinion maker di vario tipo.

2 comments for “Università italiana: non è la peggiore, anzi …

  1. roberto moscati
    8 dicembre 2009 at 20:19

    UNIVERSITA’ ABBANDONATA
    da Roberto Moscati dell’Università Milano-Bicocca

    Sono molto grato a Francesco Di Quarto per la messa a punto che il suo scritto consente. Ancora una volta si conferma come la demagogia e il partito preso si contrastino con i dati e la loro corretta interpretazione. Concordo anche con l’analisi. E mi sembra utile provare a rispondere ad alcuni dei diversi interrogativi. Lo stato in cui versa l’università italiana, a mio modo di vedere, deriva dalla storica mancanza di un reale interesse per il settore da parte della classe dirigente del paese. Non c’é infatti una serie strategia politica rivolta all’istruzione superiore e alla ricerca che sia stata sostenuta negli scorsi decenni dai diversi governi. Se qualcuno l’ha tentata (condivisibile o meno che fosse) come i ministri Ruberti o Berlinguer, gli stessi governi che rappresentavano non li hanno realmente sostenuti. Dal canto suo il mondo acccademico ha perso l’occasione storica di realizzare un sistema virtuoso di autonomie che la legge 168/89 offriva. In parte perché non aveva capito le opportunità implicite, in parte perché non le voleva/sapeva gestire.
    Per di più il settore non interessa non solo alla classe dirigente ma anche all’opinione pubblica (se é rappresentata dai mass media). Dunque scandalizziamoci per la penuria di risorse ma non speriamo che il vento cambi. Avremo sempre qualche Fermi a Chicago, Modigliani all’MIT,Dulbecco alla UCSD,ecc.,ecc., mentre ci meraviglieremo risentiti se qualcuno consiglierà al proprio figlio di realizzare le proprie aspirazioni professionali all’estero. And that’s the way it is.

  2. Paolo Ventura
    4 gennaio 2010 at 22:53

    ERRORI E SENSI DI COLPA
    di Paolo Ventura dell’Università di Parma

    Grazie Di Quarto per la paziente ricerca che ci toglie supplementari erronei sensi di colpa!
    Il comportamento degli accademici Brunetta e Tremonti e del ministro Gelmini, va evidentemente letto come uno spettacolo, peraltro non brillantemente interpretato, che mira a suscitare ripetuti movimenti d’opinione, non tanto per tagliare le spese pubbliche (abbiamo visto anzi che le uscite crescono allegramente e il deficit si aggrava) bensì per alimentare alcune note potentissime lobby (rete ferroviaria alta velocità, ponte di Messina, centrali nucleari, operazioni militari all’estero, televisioni private, educazione privata…) secondo modalità brutalmente indifferenti ai bisogni collettivi.
    Il problema, chiaramente non di natura non scientifica e non tecnica, troverebbe idonea spiegazione nelle pantomime del teatro umoristico dei De Filippo.

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