Il leone, l’universita’ e la stampa

24 luglio 2008 – ANDU

Riportiamo:
= 1. un intervento di Francesco Musacchia “La mpustuma del leone Ciccio”;
= 2. il testo dell’intervento di Giulio Ferroni “Diario di povero prof”, sull’Unita’ del 23 luglio 2008.

1. Intervento di Francesco Musacchia “La mpustuma del leone Ciccio

Alla fine degli anni sessanta, a Palermo, una protesta studentesca sfociata nell’occupazione di alcune facolta’ universitarie determino’ la sospensione degli esami di profitto. Alla fine dell’occupazione, il Preside di una di queste facolta’ preparo’ un comunicato stampa per informare gli studenti sparsi nelle varie parti della Sicilia che gli esami sarebbero ripresi a partire dal _____.

Il comunicato non fu pubblicato per “mancanza di spazio”.

L’attenzione e le emozioni dei palermitani erano allora focalizzate sulla salute di “Ciccio”, un vecchio leone ospitato nel minizoo di Villa Giulia, una bella villa pubblica di Palermo prospiciente il mare. Ciccio era affetto da una infezione le cui evoluzioni erano incerte e tenevano i cittadini con il fiato sospeso. La stampa, sensibile e partecipe di questo stato d’animo, destinava ogni giorno una intera pagina tra bollettini veterinari e interventi vari, in gran parte di bambini, allo stato di salute del povero Ciccio.

Quel preside a cui non mancavano certo arguzia e spiccato senso dell’humor commento’ sorridendo amaramente: “per la mpustuma (infezione) di Ciccio si trova una pagina sana (intera), per 500 studenti non si trovano 3 righe.”

Non chiedeva di astenersi dallo scrivere di Ciccio, ma soltanto di sottrarre 3 righe ad una intera pagina.

Dopo 40 anni sembra esser cambiato poco o nulla.

L’universita’ e’ in stato di agitazione per effetto di un provvedimento governativo che rischia di darle il colpo fatale, e la stampa, oggi come allora, trova spazio per raccontarci gli amorazzi estivi dei vip, le ultime stramberie di Naomi Campbell e Paris Hilton, ma tace massicciamente sul fatto che il nostro sistema formativo – la sottrazione di risorse non riguarda solo l’Universita’ – vada a carte quarantotto, mettendo a rischio lo stesso futuro del Paese.

Piu’ che criticare mi sembra prioritario provare a capire.

Se oggi, nell’opinione pubblica, l’immagine dell’Universita’ e’ deteriorata anche a causa di un lassismo etico che l’ha distinta in questi ultimi tempi, cosi’ non era di certo 40 anni fa. E quindi, la spiegazione che l’indifferenza e l’insofferenza verso le cose universitarie sia da ascrivere ad alcune forme di degrado interno, e’ francamente insufficiente.

Cio’ non toglie che l’Universita’ abbia il dovere di fare una forte e approfondita riflessione e autocritica su se stessa. Una riflessione e autocritica dalla quale nessuno di noi si tiri fuori dal mucchio, ricordando a se stesso e magari anche agli altri quante volte ha taciuto mentre avrebbe potuto e dovuto parlare o non ha fatto quando avrebbe potuto e dovuto fare.

Come ho avuto modo di accennare in occasione di qualche recente conversazione privata o pubblica assemblea, c’e’ un male piu’ nascosto che dobbiamo provare a scovare. Se non lo individuiamo e troviamo il modo di combatterlo, i prossimi anni ripeteranno l’attuale e i precedenti. Continueremo a piangerci addosso, cercheremo qualche padrino politico una volta a destra, un’altra volta a sinistra che ci dia conforto illudendoci di sposare la nostra (come se fosse solo la nostra) causa, ma le cose rimarranno sempre allo stesso punto.

Mi vado convincendo sempre di piu’ che l’Universita’, non per sua esclusiva responsabilita’, sia percepita come un corpo separato dalla societa’ in primo luogo per il diffuso convincimento che ai fini del successo e dell’affermazione individuale facciano piu’ premio le buone relazioni di famiglia piuttosto che l’iniziativa e la capacita’ di fare di ciascuno di noi. Ma anche questo mi sembra insufficiente.

Ci sono troppe altre domande, per me ancora senza risposta. Perche’ tante volte ci si fida piu’ del muratore piuttosto che dell’ingegnere o ancora dell’infermiere piuttosto che del medico? In quanti e quali altri Paesi del mondo esiste l’equivalente del CEPU e, se esiste, in quali di questi le sue attivita’ sono fiorenti come da noi? Nella famosa “turris eburnea”, l’Universita’ si e’ autocollocata, oppure vi e’ stata collocata da altri?

La risposta a qualcuna di queste domande potra’ aiutare a capire meglio, oppure sono andato “fuori tema”?

Francesco Musacchia”

2. Intervento di Giulio Ferroni “Diario di povero prof” Dall’Unita’ del 23 luglio 2008:

Davvero subdolo l’attacco all’universita’ portato dal decreto 112: sotto il paravento dei tagli di spesa si mette in moto un processo che tende a indebolire l’universita’ pubblica, muovendo verso forme di privatizzazione il cui esito non puo’ essere che distruttivo: la quasi totale riduzione del turn over rende praticamente impossibile la gia’ difficoltosa possibilita’ di arruolamento delle giovani generazioni; la decurtazione dei fondi per il funzionamento e per la ricerca blocca l’esercizio di molte delle attivita’ programmate; la trasformazione delle universita’ in Fondazioni conduce all’ingresso in esse (dentro quelle che ci riusciranno) dei privati, con ruoli sempre piu’ determinanti.

Un punto relativamente marginale ma fortemente punitivo verso la classe docente e’ costituito poi dal rallentamento degli scatti biennali di carriera, che tra l’altro penalizza in primo luogo proprio i giovani ricercatori da poco assunti, i cui stipendi sono peraltro molto bassi. Ma proprio la questione degli stipendi viene presa come punto di attacco e di propaganda a sostegno del disegno di privatizzazione.

Proprio il berlusconiano “Giornale” e’ partito in quarta qualificando i professori universitari in blocco come fannulloni, che intascano una barca di soldi (all’incirca 10.000 euro al mese) lavorando solo 3 ore al giorno: e fa i conti nel portafoglio dei professori ordinari e di alcuni magnifici rettori, usando artatamente le cifre (senza tener conto delle detrazioni fiscali e previdenziali: e in effetti, tenuto conto di tutto, un professore alla fine della carriera guadagna meno della meta’ della cifra indicata dal “Giornale”).

Ma e’ proprio vero che i professori lavorano cosi’ poco? e cosa significa questo populistico esporli al pubblico ludibrio? Io mi guardo intorno, nell’universita’ dove insegno da molti anni, e vedo certamente alcune sacche di privilegio, personaggi che riescono a muoversi dentro l’istituzione accademica con una presenza evanescente e poco incisiva. La grande maggioranza dei docenti, pero’ e’ li’, pronta a confrontarsi quotidianamente con una serie di incombenze che vanno molto al di la’ delle lezioni, degli esami e dei colloqui con gli studenti. Il carico didattico si e’ amplificato notevolmente negli ultimi anni: i nuovi ordinamenti introdotti dalla riforma Berlinguer- Zecchino hanno portato alla moltiplicazione dei corsi e delle funzioni di tutoraggio; le difficolta’ organizzative delle strutture universitarie (dovute proprio alla scarsita’ di risorse) costringono molti di noi ad intervenire anche su campi che sono lontanissimi dalle loro qualifiche scientifiche e disciplinari. La gestione della vita accademica e gli svariati compiti istituzionali richiedono continue riunioni di organi collegiali, che portano via intere giornate, Ci sono poi i seminari, i corsi di dottorato di ricerca, le iniziative scientifiche e culturali, gli scambi internazionali, ecc.

Molte sono le giornate in cui si sta in Facolta’ dal mattino alla sera, tra incombenze di ogni sorta, spesso in spazi ridottissimi, appena vivibili. Non bisogna poi sottovalutare (come invece fanno allegramente i compilatori del “Giornale”) l’impegno della ricerca, che nelle Facolta’ scientifiche richiede spesso una presenza in laboratorio per tutti i giorni della settimana e che per tutti comunque impone un lungo lavoro di organizzazione, di progettazione, di studio e verifica. Anzi, nella situazione attuale sono proprio le molteplici incombenze istituzionali a sottrarre tempo alla ricerca.

Se si invece vuole mantenere la didattica universitaria ad un livello “superiore”, e’ tanto piu’ essenziale che essa (anche quella di primo livello, solo in apparenza piu’ semplice e ripetitiva) scaturisca da un fecondo e diretto rapporto con la ricerca, una ricerca che deve per giunta essere sostenuta da uno scambio con i piu’ alti livelli internazionali della cultura, della scienza, della tecnologia.

Per fare tutto cio’, in un questo quadro internazionale da cui e’ miope prescindere, non basta la giornata piena. Molti professori sono in realta’ assillati dall’insufficienza del tempo a disposizione, dalla scarsita’ di spazio che rimane per portare a compimento i lavori di ricerca (quasi sempre, del resto, aspettiamo il tempo delle vacanze per poterci dedicare a tempo pieno proprio a certi lavori che non si riescono ad espletare nel corso dell’anno, ma il cui effetto positivo ricade poi sul successivo lavoro didattico).

In definitiva questi attacchi populisti ai professori universitari sembrano tendere anche a colpire il prestigio sociale dell’universita’, a limitare lo spazio di liberta’ dei docenti, ad approfondire la divaricazione tra ricerca e didattica, sottraendo definitivamente all’universita’ pubblica la funzione di punta avanzata della scienza e della cultura del paese.

E’ vero peraltro che l’universita’ e’ in crisi, come gran parte delle strutture portanti di questo paese; ma il disegno attuale mira ad approfittare di questa crisi per trasferire nell’ambito del privato (e di coloro che sono in grado di sostenere i costi imposti dal privato) i livelli di eccellenza, trasformando quanto rimarrebbe dell’universita’ pubblica in agenzia subalterna, parcheggio per gioventu’ destinata a funzioni di secondo piano, per un popolo di consumatori esclusi dal controllo dei vertici della conoscenza e dalla coscienza critica.

Questa e’ la posta oggi in gioco: tanto piu’ occorrono risposte forti e rigorose, non semplici difese dello status quo, ma attivi interventi per una rifondazione e un rilancio dell’istituzione universitaria, come motore centrale della vita democratica del paese.”

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