Riforma universitaria: attuata o stravolta ?

Luciano Guerzoni Sottosegretario all’universita’ dal 1996 al 2001.
Avendo non marginalmente condiviso con i ministri Berlinguer e Zecchino
l’ideazione e il varo della riforma universitaria, vorrei proporre alcune
domande.

1) Si ha memoria dello stato dell’universita’ italiana nei decenni ’70 e  ’80 ? Basti, per chi avesse rimpianti, la rilettura dell’insuperato saggio  di Raffaele Simone, dall’eloquente titolo L’universita’ dei tre tradimenti  (Laterza, 1993). Giusta o sbagliata, la riforma muoveva da quello stato  delle cose e a quello va riferita.

2) L’innovazione del 1999-2001 ha sostituito le lauree a ciclo unico con una articolazione degli studi universitari su tre livelli tra loro  consecutivi (laurea, laurea specialistica o magistrale, dottorato di  ricerca). Questo impianto, collaudato in altri sistemi universitari, e’  stato politicamente assunto dal 1999, con il c.d. «Processo di Bologna», da  ben 45 paesi europei. Possibile che, per l’Italia, il mutamento  dell’architettura dei corsi di studio sia la causa dell’asserito disastro ? Possibile che l’intera Europa voglia incorrere in questo disastro ?

3) Obiettivo essenziale della riforma era riconoscere, dopo l’autonomia  statutaria e budgetaria, l’autonomia didattica degli atenei. Come mai, muovendo da questo assunto, si e’ giunti al profluvio dell’immane minutaglia burocratica dei decreti attuativi? A causa del dirigismo ministeriale o dello scatenamento delle corporazioni accademiche alla ricerca ciascuna del riconoscimento, nei nuovi corsi di studio, comunque e dovunque, di uno spazio garantito per decreto alla propria disciplina? All’atto della riforma nacquero associazioni disciplinari di docenti con questo specifico scopo.

4) I famigerati “crediti formativi universitari” furono voluti, come in tutta Europa (sulla base del modello ECTS), quale criterio di misura dell’impegno richiesto allo studente per le diverse attivita’ formative e quale mezzo per favorire la mobilita’ degli studenti nelle universita’ italiane ed europee. Chi li ha stravolti in paradigma del prestigio del docente, del suo potere accademico e del peso della sua disciplina, parcellizzando insegnamenti, saperi ed esami in nome di una logica
spartitoria incompatibile con qualsivoglia obiettivo formativo? Chi ne ha fatto una ragnatela inestricabile per lo studente e una barriera alla mobilita’ studentesca?

5) Nel regolamento istitutivo della riforma (il decreto 509 del 1999) non
ricorrono una sola volta parole come “modulo”, “professionalizzazione” e le
tante altre utilizzate per giustificare un’insensata e dequalificante organizzazione dei corsi di studio. A cosa sono dunque dovute la modularizzazione e la proliferazione dei corsi?

6) A chi giova una condanna indiscriminata dell’universita’, sulla base di  una casistica certo diffusa ed eclatante, che nondimeno ignora i non pochi atenei e le non poche aree disciplinari in cui, grazie all’impegno di tanti docenti e a un’attuazione coerente della riforma, si fa una didattica di qualita’ nell’inedito contesto di un’universita’ cui accede ormai oltre il 50 per cento dei nostri giovani?

7) Come se ne puo’ uscire? Anche per l’universita’ il problema e’ di regole, di etica e di costume. Un’autonomia senza regole incentiva l’irresponsabilita’ di un sistema totalmente autoreferenziale. Definire livelli essenziali di qualita’ inderogabili, pena il finanziamento pubblico. Un sistema di valutazione rigoroso e premiante, in capo ad un’Autorita’ indipendente (non ad un’agenzia ministeriale). Un’autonomia
vera degli atenei, senza piu’ tutele, ne’ paracaduti. E’ il debito della politica verso l’universita’, prima e ancor più dei finanziamenti.

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