Altri interventi sul 3+2

Con l’autorizzazione degli Autori, diffondiamo due messaggi sul “3 + 2″ inviatici Gianni Mattioli (Roma La Sapienza) e da Elio Cabib (Udine).

Gianni MATTIOLI (Roma La Sapienza): Ruberti e la laurea breve

Carlo BERNARDINI (Roma La Sapienza): “Far West”

dall’Unità del 20/06/06:

Far West Università

Carlo Bernardini

Una riforma di buone intenzioni, come quella varata da Luigi Berlinguer e che va sotto il nome di 3+2, ha scatenato una guerra che, a volerla nobilitare, si può chiamare di religione ma più volgarmente somiglia a quella ta agricoltori e allevatori in un unico Far West (l’Università). Veniamo al sodo: Berlinguer constatò (ai tempi suoi, cioè prima che passasse il governo d’occupazione berlusconiano, con le truppe occupanti agli ordini del generale Brichetto) che l’età dei neolaureati italiani era, in media, molto alta, oltre i 27 anni; che le università avevano un numero enorme di studenti fuori corso magari impegnati per anni in una tesi di
ricerca, che il numero degli abbandoni degli studenti era assai elevato, in
media il 70% degli iscritti iniziali. Aggiungendo a tutto ciò che l’università italiana era diversa dalle altre, europee in particolare, e che spesso le nostre poche lauree andate in porto equivalevano a dottorati stranieri, Berlinguer pensò bene di adoperarsi perché il nostro sistema producesse più laureati e meno frustrati, agendo sula natura stessa dei titoli, sull’ordine degli studi e sulla complessità dei corsi. Nacque la formula 3 + 2, che richiedeva che gli universitari si rimboccassero le maniche e concepissero e organizzassero i loro insegnamenti in modo
efficiente. Alcune Facoltà lo fecero (gli agricoltori) perché abituate a forme cooperative di gestione dei corsi di laurea: l’autonomia voluta già da Ruberti lasciava ampi margini di proposta, si trattava perciò solo di farla, quella proposta. Naturalmente, tutti gli «agricoltori» sapevano benissimo che si sarebbe trattato di proposte sperimentali e che nessuno avrebbe vietato di ottimizzarle nel tempo, con la pratica. Gli «allevatori», invece, avevano da pascolare ciascuno la propria mandria e quindi scarsa attitudine a collaborare. Non capirono il problema:
incominciarono a mugugnare sempre più intensamente, sinché alcuni opinionisti dei giornali, tra cui il prof. Pietro Citati su Repubblica (che, a rigore, allevatore professionalmente non è, e tanto meno agricoltore) le sparò grosse, scrivendo che solo gli allevatori appartengono all’élite dirigenziale, che gli agricoltori sono solo tecnici, che gli animali devono pascolare liberamente su territori liberi e vasti,
che se ci sono animali in eccesso meglio destinarli a lavori pesanti che non continuare ad allevarli per incrementare le greggi. Fuor di metafora, Citati scrisse (e non era la prima volta) che solo gli umanisti potevano aspirare alla dirigenza, che gli studenti in eccesso potevano fare i fruttivendoli o i falegnami e altre sublimi prospettive di questo tenore. Siamo al punto, registrato dal frenetico scambio in rete attraverso l’associazione Andu di docenti universitari, che le posizioni si sono
radicate e appaiono inconciliabili. Il sistema delle abitudini e degli stili di vita di agricoltori e allevatori è profondamente diverso; anche le offerte formative lo sono e nessuno oserebbe gridare che quella degli altri è inaccettabile. Eppure è così: se il contrasto non scoppia, il bubbone infetterà tutto il sistema: Questo è un caso di conflitto in cui manca una buona ideologia di riferimento, dalla parte dei giovani, con interrogativi di questo tipo:
1 – Una comunità nazionale deve o non deve aspirare ad avere un sistema pubblico di istruzione che raggiunga il maggior numero possibile di giovani?
2 – La cultura consiste forse soprattutto in forme di erudizione o in capacità operative?
3 – Perché preferire una straziante e inutile tesi di 300÷500 pagine, confezionata in più di un anno, a una dissertazione agile e concettosa di 30 o 40 pagine costruita in 3 o 4 mesi con una piccola ricerca personale?
4 – Perché preferire ciò che si faceva in 4 anni a ciò che si può fare in 3+2=5 anni, senza preoccuparsi anche di eventuali impieghi dei laureati nei primi 3 anni?
Penso che un motivo forte per avere gente giovane con un titolo valido sia quello di aprire gli occhi sul degrado a cui conducono le politiche della formazione che abbiamo appena superato con la caduta del governo Berlusconi. Ma, nelle condizioni al contorno a cui siamo tornati, i risultati dipendono solo dall’impegno e dalle idee che sappiamo metterci noi docenti.

Daniele MARINI (Milano Statale): “I veri crediti”

From: Daniele Marini (Università di Milano)
Subject: Re: “3+2″: due interventi. Convegno l’11.7?
Date: Sat, 17 Jun 2006 10:38:59 +0200
To: ANDU <anduesec@tin.it>

Con preghiera di diffusione, commento sull’intervento di Alessandra Ciattini (v. nota).

E’ errato definire il credito didattico come ” … quantità di apprendimento in un determinato settore disciplinare accumulata da uno studente.” Per una corretta definizione dei crediti didattici si puo’ fare riferimento a una breve presentazione da me curata per il CUN nel 1998, che si puo’ consultare in questo sito: http://homes.dico.unimi.it/~marini/CUN/CREDITI/
Nell’ultima pagina ci sono riferimenti bibliografici a documenti uffuciali che descrivono il sistema ECTS (European Credit Transfer System).

All’epoca consideravo con un certo entusiasmo l’introduzione dei crediti, ma onestamente mi sono pentito e citerei il commento di Fantozzi alla “Corazzata Potemkin” per qualificarli in modo sintetico. Un giudizio piu’ preciso porta pero’ a rilevare che l’opinione di Alessandra Ciattini e’ assai diffusa ed e’ forse la causa del fallimento dei crediti nel sistema universitario italiano. Questo punto di vista ha portato gli stessi studenti a considerarli con un atteggiamento rivendicativo e, direi, “sindacale”. Ha anche portato i docenti e le facolta’ a perdere di vista la funzione essenziale che era quella di facilitare la mobilita’ degli studenti tra atenei e corsi di studio, sia italiani sia europei. Ben venga un dibattito sul sistema dei crediti per rimetterli nella giusta prospettiva. In assenza di cio’ meglio sarebbe eliminarli.

Daniele Marini


Nota. Per il testo dell’intervento di Alessandra Ciattini:
http://www.orizzontescuola.it/article11016.html

Carlo DEL PAPA (Udine): “dare a Cesare …”

Vorrei provare a rispondere alla collega Ciattini di Roma, con la quale parzialmente dissento, per esempio quando dice: “A me sembra evidente che la nozione di CFU comporti la subordinazione dell’istituzione universitaria al mercato, da cui deriva inevitabilmente lo stravolgimento della funzione tradizionale dell’università,.” e più in là: “Lo stravolgimento si sta già concretando in quelle trasformazioni, che stanno sotto i nostri occhi: l’università non deve essere più
un’istituzione dedita alla ricerca di base e di lungo periodo,.” Certo che l’Università deve rimanere il posto in cui si fa la ricerca di base, ma questo non è in contraddizione con la richiesta che essa sia anche un luogo in cui si formino i giovani, né lo è mai stato. I compiti dell’Università sono molteplici: la ricerca di base, quella applicata e l’insegnamento. Nel formare i giovani dobbiamo sia formare quelli che lavoreranno all’esterno dell’Università (Industria, ma anche, scuola, banche, dirigenza dello stato e burocrazia, libere professioni ecc.), oltre
a quelli che lavoreranno nella docenza e nella ricerca. Se è giusto pretendere di sapere cosa sia e come si formi un buon ricercatore/docente, perché dobbiamo pretendere di sapere cosa sia un buon ingegnere che lavori nell’industria dell’auto o in quella elettronica? Facciamocelo dire così, pur senza rinunziare a dire la nostra, e accettiamo quello che viene fuori dalla discussione con il resto della società civile, economica e politica, che certo ha qualcosa da dire su tale soggetto. Se gli piacciono i CFU, che se li tengano. In questo modo non potremo essere più accusati di essere “autoreferenziali” e ci mostreremo più democratici (ché anche di questo si tratta). Se errori si faranno, saranno gli errori di tutta la società. E’ vero tuttavia che la formazione dei ricercatori e la ricerca sono affari
nostri: qui abbiamo tutto il diritto di essere “autoreferenziali”. Il mercato del lavoro qui è il nostro mercato e sappiamo noi cosa va fatto. Qui non bisogna accettare compromessi. In somma, penso che sia giusto dare a Cesare quello che è di Cesare, ma anche prenderci quello che è nostro. Certo occorre fare in modo che in un corso strutturato in un certo modo (3+2) ci stia sia la formazione dei ricercatori che quella dei destinati ad altri settori: non mi pare un compito impossibile.

Cordialmente
Carlo del Papa
Ordinario di Fisica Generale
Università di Udine

 

 

 Alessandra CIATTINI (Roma La Sapienza): 

Ma a che servono i crediti?

Ho seguito con interesse e partecipazione il dibattito sul 3 + 2, ma sono anche rimasta un po’ delusa. Mi sono chiesta: come mai scienziati e studiosi insigni non si sono posti il problema centrale, che sta alla base dell’introduzione dei CFU? Perché si sono soffermati su aspetti sì importanti, ma non sono andati alla radice del problema? Il perché non lo so e non voglio essere maliziosa, ma desidero
semplicemente dare un piccolo contributo al dibattito svoltosi con il
supporto dell’ANDU.
Come si ricava dai documenti ufficiali, con i quali è stato avviato il cosiddetto “spazio europeo dell’educazione superiore”, i crediti misurano
la quantità di apprendimento in un determinato settore disciplinare accumulata da uno studente. Ma perché è necessario misurare la quantità di apprendimento in un determinato settore disciplinare? La risposta è abbastanza semplice. In un mercato del lavoro, che richiede sempre più flessibilità e mobilità, è necessario che i datori di lavoro siano in grado di misurare la quantità delle conoscenze acquisite dagli individui, che intendono assumere per svolgere un determinato lavoro. In conclusione, il CFU consente di misurare quantitativamente (la qualità sembra non contare) la preparazione di un futuro lavoratore in un certo ambito
indipendentemente dal paese e dall’università, in cui ha accumulato i suoi
crediti.
A me sembra evidente che la nozione di CFU comporti la subordinazione
dell’istituzione universitaria al mercato, da cui deriva inevitabilmente lo
stravolgimento della funzione tradizionale dell’università, che ovviamente
– nonostante i suoi detrattori – non è mai stata chiusa alla società e alle sue domande. Basti pensare a tutti quei movimenti che sono nati nelle università e che hanno cercato di intervenire su problemi politico-sociali importanti.
Lo stravolgimento si sta già concretando in quelle trasformazioni, che stanno sotto i nostri occhi: l’università non deve essere più un’istituzione dedita alla ricerca di base e di lungo periodo, i cui frutti sicuramente non potranno vedersi nell’immediato futuro; non deve essere più un’istituzione che, grazie alla ricerca sociologica ed umanistica, prefigura addirittura nuove forme di vita sociale. Essa non deve essere più “autoreferenziale” (come dicono i nostri innovatori), ma deve aprirsi al mercato, alle sue esigenze e ai suoi bisogni. Essi dimenticano di dirci che anche il mercato è autoreferenziale; infatti, ha le sue leggi che determinano il successo e l’insuccesso di una determinata strategia economica. Affermare che i crediti svolgono la su menzionata funzione e comportano lo stravolgimento dell’istituzione universitaria, non significa andare controcorrente, ma constatare un’ovvietà. D’altra parte anche il Presidente della CRUI è consapevole dei rischi di tale stravolgimento o meglio della subordinazione al mercato. Infatti scrive: << Lo sviluppo della conoscenza sarebbe a forte rischio se subordinato esclusivamente a logiche di mercato. Si avrebbe il declino di aree di grande rilevanza culturale poco appetite dal mercato>> (Trombetti G., Tre misure urgenti per il rilancio
dell’Università, Sole 24 Ore, 26 maggio 2006).
Se ha ragione Trombetti possiamo solo ipocritamente chiederci: fino a che punto il mondo universitario può piegarsi alla logica del mercato, senza diventarne un’appendice?

Alessandra Ciattini

Piersante SESTINI (Siena):

Il dibattito mi pare insolitamente vitale e già questa è una gran cosa. Alcuni aspetti IMO positivi che mi pare di aver colto nel dibattito finora:

1) Volontà da parte dei più di essere propositivi e positivi: con i “no” e basta ci si trova a spendere energie futilmente in una pessima compagnia di conservatori, nostalgici e neorestauratori, come è puntualmente successo nel caso dei provvedimenti della Moratti, risultati poi, come prevedibile, piuttosto innocui sia nel bene che nel male.

2)Riconoscimento che è sulla qualità della formazione che si gioca la questione, e che se non la si misura in qualche modo non si la potra’ modificare. E che per qualità si intende (nello spirito della Costituzione) lo “standard” a cui vogliamo portare tutti (o quasi) gli studenti, non pochi “eccellenti”. Il che non esclude ovviamente che diverse sedi, o studenti della stessa sede, non possano raggiungere livelli diversi. Per questo serve un sistema serio di valutazione e
certificazione della qualità della formazione. In questo rimarcherei due cose:
a)la diatriba su come fosse la formazione prima della riforma si risolve facilmente: dava ad alcuni una ottima formazione ma era disomogenea per facolta’, sede, gruppi di studenti. L’idea del 3+2 per tutto e tutti era fin dall’inizio visibilmente cretina, ma questo non vuol dire che cio’ che c’era prima fosse l’eta’ dell’oro, ne’ che per qualche corso non possa andare ottimamente.
b)stabilito che la valutazione dei prodotti della didattica e della ricerca sarà vitale (e che su questo si gioca quasi tutto), va detto chiaro che il CIVR e’ un pessimo modo di farla che pare messa su dagli “autoeccellenti” per dare fumo negli occhi e garantirsi risorse ai danni di tutti gli altri. Un sistema di valutazione serve principalmente ad identificare i punti deboli che necessitano di interventi, non i “punti di eccellenza”.

3)Ricerca di un modo positivo e non ambiguo di ridefinire l'”autonomia universitaria”, che non puo’ essere intesa, com’e’ ora, “voi ci date i soldi e noi si spendono come ci pare”, ma va coniugata al principio di responsabilità (per cui chi paga si prende la responsabilità delle scelte) e ad una reale liberalizzazione, dal momento che i modi e i tempi mecessari per raggiungere uno standard di qualità ovviamente possono cambiare da caso a caso e anche da sede a sede. L’aspetto che ho sempre apprezzato di più nell’ANDU è la ricerca di un modo di dare forza alle molte forze capaci e volonterose presenti nell’università. E’ bene pero’ rendersi conto che da sole queste forze non ce la fanno ed è tempo di guardarsi attorno e di cercare alleati anche fuori dell’università. All’interno di un percorso che non ammettera’ soluzioni semplicistiche, l’abolizione dei concorsi e del valore legale del titolo di studio (o comunque un qualche meccanismo di disinnesco delle “cupole” dei settori disciplinari) mi paiono due possibilità da discutere e non demonizzare.

saluti,
Piersante Sestini
Professore associato di Malattie Respiratorie
Università di Siena

From: “Marina Montacutelli” :
To: “‘ANDU'” <anduesec@tin.it>
Subject: contributo sul 3+2
Date: Wed, 14 Jun 2006 01:20:17 +0200

Cari colleghi,
come contributo al dibattito sul 3+2 vi invio, in allegato, l’intervento che ho presentato ieri al forum dei DS “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Il testo e’ stato pubblicato su Aprile on line e, ovviamente, vi autorizzo a diffonderlo
Cordialmente
Marina Montacutelli

Intervento al Forum DS “E quindi uscimmo a riveder le stelle.”, Roma – 12 giugno 2006
Pubblicato su Aprile on line, 14 giugno 2006

Il re è nudo?
Passeggiata in uno dei tanti gironi infernali

Marina Montacutelli

Tra i vari gironi infernali possibili – quello di qualche presidente simoniaco e superbo, che svende la scienza inseguendo l’azienda; quello di qualche direttore, che dovrebbe camminar sfiancato per il peso di cappe di piombo, come meritano per padre Dante gli ipocriti; quello – subìto – di chi è costretto a conoscer lo pane altrui, magari oltreconfine; quello dell’usanza italica dei cambiacasacca, cioè dei traditori della patria o degli amici (anche se camuffati da astuti Ulisse o da proficui, autoreferenziali girotondi); quello delle Malebolge, dove troviamo i
ruffiani, gli ingannatori e i lusinghieri; quello dei predoni di questi anni, che Dante immergerebbe nel sangue bollente – ve ne propongo un altro, di girone. Conficcato giù, nel profondo dell’inferno. E ben radicato, nel tempo e nelle convinzioni.
Con una premessa: se non ora, quando? Quando, cioè, parlare? Giacché ci troviamo- sui temi dell’università e della ricerca, temo non solo per quelli – in ciò che mi sembra ancora un brodo primordiale, nei programmi e nelle sia pur buone intenzioni: quando, se non ora, che abbiamo finalmente finito di dar conforto alla sparuta pattuglia di deputati e senatori che, anime in pena, si aggiravano in un parlamento umiliato e offeso? Quando, se non ora, che guardiamo le macerie fumanti del Paese e dei luoghi del sapere e non sappiamo dove cominciare a metter le mani? Quando, se non ora, che il tempo delle promesse è davvero finito, e non lo dice solo Montezemolo? quando, se non ora, dobbiamo parlare e cominciare a metter ordine e dar corpo, senso, direzione a questo brodo primordiale del programma? E dobbiamo prender l’astronave, o contemplarle soltanto le stelle che usciamo – certamente – a rivedere? E l’astronave che vogliamo prendere è un’astronave che va a pedali? Ed è qui, che dobbiamo parlare? Ci ascolterete? A me, in questi giorni, l’hanno chiesto in tantissimi.
Il girone infernale, uno tra i tanti possibili, è quello dei barattieri: sommersi nella pece e uncinati dai diavoli. Oppure quello dei falsari, afflitti da lebbra o scabbia. Molti di noi dovrebbero cominciare a grattarsi furiosamente: eppure la pena più grave, per padre Dante, spetta a chi pecca consapevolmente. Dove e quando ha peccato, chi di noi rilascia il titolo breve o magistrale? Il nostro mestiere è esercitare i cervelli, non allevare asini; pure, sembriamo tanti Lucignoli. Siamo falsari e barattieri, perché facciamo mercato fraudolento di un titolo pubblico, e
ancora con valore legale. Chi ci ha messo, e perché, in questa situazione? Compito della politica è dare il quadro normativo, e le risorse, affinché anche da un cattivo professore possa uscire comunque un discreto studente. Non è questa la situazione delle università italiane, non c’è la “concorrenza sulla qualità” ma, piuttosto, centri luminescenti sotto i riflettori, autonominatisi d’eccellenza o proclamati tali per decreto e spesa pubblica quando le università non hanno neanche la carta e le aule. Abbiamo però l'”accoglienza”, anche se non vendiamo – con tutto il rispetto – prosciutti e ci manca ancora il “customer care”. Abbiamo però la pubblicità allettante (finché non ci acciuffa l’authority per l’ingannevole), per rubarci l’un l’altro gli studenti e rientrar così nelle tabelle ministeriali: eppure, per una buona università, il biglietto da visita dovrebbero essere i suoi laureati. Gli ultimi anni hanno solo fertilizzato il terreno, producendo una “serialità necessitata” (il tre, e poi il 2) per quella che è stata definita una laurea – obbligatoriamente magistrale, ma di ignoranza – davvero inutile. Necessitata da un paese sfiatato ed economicamente disperato; necessitata da una società che produce attempati adolescenti a casa di mammà, sfiduciati cacciatori di crediti tanto la prospettiva è l’agenzia o il progetto, come si chiama adesso; necessitata da una politica che ha prodotto lemmi da partita doppia, che mercificano un sapere disseccato e svilito, ingravidato di pressappochismo e ignoranza. Noi, ora nel girone infernale, non avevamo chiesto l’America; ce l’hanno data lo stesso: ma quella delle pianure, non certo Princeton; ce l’hanno poi spacciata per Europa, e non è neanche questo perché nel continente stanno persino riconsiderando i sistemi di alta formazione perché non funzionano e spostano solo più in là – o più nelle casse dei privatissimi master – l’asse della professionalizzazione, se è questo l’unico terreno – insieme a quello delle performances – che si vuol praticare. Questa università è speculare a un Paese in declino e che dichiara la propria bancarotta; produce un Paese tayloristico nella forma e balbuziente nella sostanza.
La pagheremo tutti.E non mi riferisco soltanto, come ci dicono sempre, alla materie umanistiche. E non mi riferisco soltanto, perché i dati non sono il latinorum e sappiamo leggerli e produrli anche noi, a quel che ci dice Alma Laurea, rispettabilissimo e serissimo consorzio – peraltro a pagamento – di 48 università italiane in campione purtroppo non statisticamente significativo sulle tante, ormai disseminate in ogni campanile. I dati, per chi vuol cercarli, ci sono: e ci dicono che i laureati non sono aumentati (basterebbe scorporare, e guardare alla data di immatricolazione) e i tassi di uscita relativi alla totalità della coorte si stimano intorno al 40% (su un piccolo campione di università di media dimensione e in media ponderata) tra il primo e il secondo anno, e intorno al 15% tra il secondo e il terzo anno: è tanto, per chi aveva dato – a noi e alla società – la fiducia di iscriversi all’università. Aumentano gli iscritti, non certo nelle facoltà tecnico-scientifiche peraltro, e poi se ne vanno. Quelli che restano, continuano stancamente ad accumular crediti e a subire un sapere parcellizzato e screditato, spezzettato e propinato quando e come si può: d’altra parte, perché correre verso il call center? Giacché, con la nuova laurea, non si trova certo più lavoro e questo lo dice pure Alma Laurea che ci conforta anche su un altro dato: i laudatores del nuovo sistema hanno guardato alle “performances” dei primi laureati, per autoconfermarsi e legittimarsi: ma “è evidente che i primissimi laureati post-riforma [.] non possono che essere i migliori laureati in assoluto rilevati in termini di performance e, come tali, raggiungere spesso livelli di eccellenza”. A regime, gli studenti hanno capito e le aziende pure: e il lento pede rimonta vittorioso, confortato dall’economia, dalla politica e dalla società. Noi non abbiamo bisogno di un lifting che certifichi e ratifichi la strategia dell’esclusione. Abbiamo bisogno di un progetto forte e condiviso, perché le riforme senza condivisione hanno il crisma
dell’autoritarismo e comunque falliscono. Perché ogni reazione ne produce, quantomeno, una uguale e contraria. Perché anche noi abbiamo una dignità. E perché, dopo l’assolutismo, c’è stata la rivoluzione francese.
L’auspicio sarebbe che si creino gruppi di lavoro permanenti tra noi ed una seria ricognizione statistica del sistema del 3+2 e dei crediti al Ministero: senza dar nulla per scontato, perché – a me – il re sembra nudo e serve solo un bimbo che lo gridi. Mi chiedo, infine, cos’è questa “governance” di cui si parla tanto: perché occorre cambiare davvero mentalità, se si vuole essere uomini di stato e capaci di “sovranità”, e non solo rappresentanti di fazioni. Anche, se si ha l’intenzione di proporla di tipo “just in time”: ricordandoci che il modello giapponese, sia nel suo comprar brevetti che nella sua fabbrica senza uomini (e forse senza costrutto), è fallito da almeno quindici anni. Lo so che avere a che fare con noi non è facile: come chi diceva contro Galileo, nella sua versione brechtiana: “il mondo è percorso da un’inquietudine nefanda; e l’inquietudine dei loro cervelli, costoro la
trasferiscono alla terra (.) immobile.(.) Loro mettono in dubbio ogni cosa; e possiamo noi fondare la compagine umana sul dubbio, anziché sulla fede?” .

E’ vero, noi dubitiamo.

Gianni MATTIOLI (Roma La Sapienza): Ruberti e la laurea breve

Sono interessato a partecipare ad un’occasione di approfondimento sul “3+2″ (v. nota). L’esperienza fatta sin qui mi sembra sufficentemente distruttiva. Ho avuto modo di approfondire a lungo con Antonio Ruberti la sua idea di laurea breve: si trattava di percorsi accuratamente studiati per quei casi in cui precise mansioni richiedessero determinati strumenti di formazione. Nel pensiero di Ruberti, dunque, non sarebbe stata accettabile una adozione generalizzata – e priva di una ricognizione sul mercato del lavoro – della laurea breve. A chi poi cita la laurea breve come strumento per superare la piaga dell’abbandono, più diffusa tra gli studenti provenienti da fasce sociali più deboli, mi pare si debba rispondere che è davvero stolto pensare di risolvere questo problema abbassando il livello della laurea: altri strumenti prevede la Costituzione per gli studenti meritevoli e bisognosi!
Gianni Mattioli

Nota. Mattioli si riferisce all’ipotesi dell’ANDU di promuovere un Convegno nazionale sul “3 + 2″ da tenersi a Roma martedì 4 luglio 2006. L’ANDU invita coloro che sono intervenuti on-line e tutti coloro che sono interessati a comunicare al più presto la loro disponibilità a partecipare di persona al Convegno in modo da consentire di decidere se ci sono o meno le condizioni per promuoverlo.

Elio CABIB (Udine): E a Ingegneria?

Dice Carlo Bernardini (v. nota):
“….Per i fisici, so cos’è: il “tecnico di laboratorio” è scomparso inopportunamente dalle scuole superiori; molte ditte e gli ospedali hanno bisogno di persone che facciano funzionare gli strumenti, eccetera. Anche per un matematico da 3 saprei dire che cosa ci sarebbe, e così chimici e biologi (laboratori d’analisi, per esempio). Qualcuno ha fatto l’esercizio per gli storici e i filosofi? Senza offesa, mi presterei volentieri a farlo io, le idee non mi mancano. Mi mancano per il latino, è vero, ma anelo a sentire sprazzi di creatività e fantasia da colleghi competenti. Eccetera. …..”
E per gli ingegneri? Ce l’ha qualche idea su come far funzionare il 3+2? Cosa deve essere un ingegnere triennale, uno che non sa nulla di scienza ma e’ un tecnico-perito-geometra-aggeggione oppure un meccanico teorico razionale dei continui che non sa progettare nemmeno un tombino?
Elio Cabib

Nota. Il periodo dell’intervento di Bernardini citato da Cabib è preceduto da questa frase: “Insomma, proviamo a partire dall’osservare che 3+2=5 e che 5 è più di 4, durata dei vecchi corsi; e organizziamo le cose in modo che fermandosi a 3 ci sia un mestiere di ripiego riconosciuto dal mondo del lavoro.”

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