Concorsi universitari. La botte e la moglie

E invece il vero problema dell’Università italiana è proprio quello del reclutamento, cioè, nella sostanza, dei concorsi a ricercatore in cui capita tutto quello che anche Panebianco denuncia (ma riferendosi agli
avanzamenti di carriera di chi è già stato reclutato): “carattere localistico del reclutamento”, “vince il candidato locale”, ecc.
Ma parlare del vero reclutamento alla docenza è tabù per troppa parte dell’accademia italiana: a decidere chi e quando debba cominciare la carriera universitaria in ruolo deve continuare ad essere, di fatto, il
singolo barone che sceglie il suo “allievo” già al momento della tesi, poi gli fa avere il dottorato di ricerca, qualche borsa e quindi il posto di ricercatore attraverso un finto concorso della cui commissione è membro
interno. Se questo è il modo di reclutare perché scandalizzarsi poi tanto per il fatto che, nel proseguimento della carriera, indipendentemente dal meccanismo in vigore, continuino a manifestarsi tutti quei difetti che oggi si scoprono nei “concorsi” ad associato e a ordinario?
C’è un elemento nuovo e rilevantissimo nell’attuale legge: a decidere di fatto chi deve diventare associato o ordinario non è più una commissione nazionale, ma il Consiglio di Facoltà. Questo, ancor più della composizione locale della commissione, ha prodotto il “docente fatto in casa”, cioè, nel concreto, promosso dall’ordinario che l’aveva già reclutato “in casa”.
Ma è proprio questa la vera causa del “localismo” dei finti concorsi a ordinario e ad associato che l’accademia che conta non vuole rimuovere, fantasticando su “nuovi” meccanismi nazionali che comunque non tolgono l’ultima parola alle Facoltà e quindi mantengono praticamente intatto il carattere localistico del “reclutamento”, cioè in realtà dell’avanzamento di carriera. Panebianco, come toccasana di ogni male propone, tra l’altro un modello attribuito ad Umberto Eco: “una lista nazionale (bloccata) di
candidati riconosciuti ‘idonei’ per qualità dei loro titoli scientifici, da cui le Facoltà possano liberamente attingere.” Ripetiamo: rimanendo la scelta ultima, quella vera, nelle mani delle Facoltà, la Commissione
nazionale non può che adeguarsi “preventivamente” alle volontà della Facoltà che ha richiesto il bando del posto o diversamente perderà il suo tempo ad idoneare docenti che non verranno “attinti” da nessuno. Per
inciso, la verità è che Eco era fortemente contrario alla lista bloccata e voleva una lista aperta che “non deve avere limiti”, come ampiamente argomenta in una sua “Bustina di Minerva” nell’Espresso del 5.5.95 in
polemica con Marcello Pera. Comunque, anche la lista completamente aperta non eliminerebbe l'”effetto locale” degli avanzamenti.
Ma la lista nazionale bloccata non è l’unico rimedio proposto da Panebianco. Egli vuole anche non fare partecipare alla richiesta dei posti i ricercatori e gli associati in quanto interessati alla loro promozione.
Quanti sono i casi a conoscenza di Panebianco nei quali un bando di “promozione” ad ordinario o ad associato sia stato deciso contro il professore ordinario con il quale l’aspirante candidato locale “collabora”?
Altro rimedio avanzato da Panebianco è quello della distribuzione dei fondi agli Atenei sulla base della qualità della didattica e della ricerca prodotte. Giusto. Solo che si tratta di un rimedio che darebbe i suoi,
comunque limitati, effetti contro il localismo solo dopo troppo tempo. Infine, un ultimo rimedio che Panebianco presenta per primo: “il ministero sostenga le facoltà impegnandosi a pagare la differenza che corre fra il costo del candidato locale eventualmente promosso e quello del professore esterno”. Panebianco vorrebbe indurre la Facoltà a scegliere il migliore anche non locale grazie al fatto che il costo non cambierebbe scegliendo l’esterno. Si tratta di pura fantasia. Se una Facoltà chiede il bando di un posto lo fa perché vuole promuovere comunque un suo candidato locale e non cambierà idea dopo il concorso. Peraltro l’esterno che viene idoneato ha interesse a utilizzare l’idoneità nella sua sede di appartenenza.

Ancora una volta viene confermato che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, in questo caso la scelta per merito e la scelta da parte della Facoltà. Anche questo navigare nel buio, tra contraddizioni e confusione, mostra che la proposta dell’ANDU rimane l’unica capace di assicurare reclutamento e
promozione per merito, liberando l’Università dal mercato del bando e della gestione dei finti concorsi per ordinario e per associato. Ripetiamo ancora una volta la proposta dell’ANDU. I concorsi a ricercatore
dovrebbero essere svolti da una commissione interamente nazionale costituita da soli ordinari tutti sorteggiati. Con le stesse modalità dovrebbero essere previsti concorsi a ordinario e ad associato per
candidati non appartenenti alle fasce della docenza universitaria. L’avanzamento nella carriera, cioè il passaggio da una fascia all’altra, dovrebbe essere deciso attraverso un giudizio individuale espresso da una
commissione nazionale costituita da soli ordinari tutti sorteggiati. Al giudizio positivo deve conseguire l’immediato, pieno e automatico riconoscimento della nuova qualifica, senza quindi una ulteriore scelta da
parte della facoltà di appartenenza. Il maggior costo derivante dalla promozione dovrebbe essere a carico dello Stato.

29 settembre 2003

P.S. Panebianco scrive anche: “È raro, per esempio, che una Facoltà metta a bando un posto di ruolo ‘per trasferimento’ al fine di accaparrarsi un bravo professore incardinato in un’altra sede o un ricercatore straniero”. A conforto di Panebianco si ricorda che c’è in Italia una Facoltà in cui il
reclutamento per trasferimento non è raro, anzi si fa solo quello. Si tratta di Giurisprudenza di Roma 1. In questa Facoltà ci sono 85 ordinari, 0 (zero) associati e 129 ricercatori e assistenti tutti senza incarico di
insegnamento. Solo 85 professori, tanti anche impegnati ad altissimo livello nelle Istituzioni o nella professione, che insegnano a circa 25.000 studenti. In questa Facoltà “speciale” si sono “saltate” le due principali leggi di riforma della docenza: il DPR 382/80 che istituiva la figura del
professore associato e la Legge 341/90 che consentiva di attribuire a ricercatori e assistenti l’incarico di insegnamento. Queste leggi sono state invece usate in tutte le altre Facoltà italiane, evidentemente meno
interessate all’alta qualità dell’insegnamento. E se tutte le Facoltà dovessero da domani non bandire alcun concorso per professore e ricorrere tutte solo ai trasferimenti?
Nessuno di quelli, tutti grandi accademici, che hanno accesso esclusivo alla ‘grande’ stampa per le questioni universitarie, ha mai avuto tempo e voglia di occuparsi della virtuosa anomalia di Giurisprudenza di Roma 1.
Potrebbe cominciare Panebianco che ha tanto scritto sull’Università e che è tanto ascoltato dai Governi e dal Parlamento, come quando, dopo un suo (af)fondo sul “Corriere”, si è salvata dall’istituzione della terza fascia
l’Università italiana, e in particolare la Facoltà di Giurisprudenza di Roma 1, dove di fascia ce n’è solo una.
A proposito della terza fascia, va molto apprezzata l’affermazione contenuta nel “Parere della CRUI sulla riforma dello stato giuridico dei docenti universitari”, approvato il 23.9.03: “Per elementari ragioni di
equità, appare doveroso riconoscere agli attuali ricercatori la qualifica di professore di terza fascia.” (Testo completo del Parere della CRUI in http://www.crui.it//data/allegati/links/454/parere_stato_giuridico.pdf )

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